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Sudditi, non cittadini

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Sudditi

In occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, Nicola Rossi, per i tipi della IBLlibri, ha curato un saggio a più mani, dal titolo “Sudditi, un programma per i prossimi 50 anni”.
Il tema centrale del saggio è l’analisi del rapporto tra stato e cittadino nella Repubblica Italiana di oggi.
Nell’introduzione Rossi richiama un dibattito analogo a quello odierno suscitato da questo saggio.
Il dibattito aveva protagonisti Francesco Ferrara e Luigi Luzzati.
Vale la pena di riportare le parole di Ferrara citate da Rossi:
“Per noi, vi hanno de’ governanti come e perché vi hanno agricoltori, proprietarii, avvocati ecc.; governare è un mestiere come tanti altri; governanti son uomini in carne ed ossa che assunsero, sia di propria volontà, sia per espressa richesta, l’incarico di produrre pace e giustizia, come il cacciatore produce la selvaggina ed il sarto i vestiti. Radicalmente diverso è il concetto da cui la Scuola autoritaria prende le mosse. Nel suo sociale sistema è supposto che, al di sopra degli individui consociati, esista un ente, un quid ignorabile, non visto, non sentito, impalpabile, creato apposta, non si sa quando né come, per sollevare e dominare su tutto l’ordine sociale.”
Parole, direi, ancora valide. Purtroppo, non c’è bisogno di dirlo, le tesi liberali di Ferrara, il più autorevole economista italiano del Risorgimento, non vennero accolte, e prevalse Luzzati, uno tra gli artefici della fine del liberalismo cavouriano. E negli ultimi 150 anni, nonostante la brevissima parentesi eianudiana, il tema del rapporto tra stato e cittadino non è più stato al centro dell’agenda politica. Di fronte a qualunque conflitto tra l’uno e l’altro, a prevalere è stato, ed è sempre, lo stato, proprio in virtù di quel quid evocato dal Ferrara.
E questo saggio rende conto, impietosamente, degli effetti che tale predominio ha sortito. Lo squilibrio e la disparità di trattamento di fronte alla legge tra stato e cittadino è enorme e permea ogni aspetto della vita dei singoli cittadini.
Personalmente, più degli aspetti fiscali, che in questo periodo di crisi vengono percepiti in modo pressante dalle persone comuni, il punto che mi ha ispirato il maggior disagio, nel puntuale resoconto dei mali dello stato italiano effettuato capitolo per capitolo, è quello relativo alla posizione del cittadino di fronte a qualunque tipo di contenzioso che coinvolga l’amministrazione statale. E’ lì, come sottolinea Rebuffa nel primo capitolo, che si manifesta la differenza profonda tra il nostro ordinamento e un vero ordinamento liberale.
E’ lì che possiamo vedere nitidamente che in Italia noi non siamo cittadini ma sudditi. “Ciò che definisce il cittadino non è tanto la sua appartenenza a una comunità politica, quanto la sua posizione di libertà nei confronti del potere politico.” dice Rebuffa, e aggiunge:“Non soltanto, pertanto, i diritti degli individui costituiscono il limite all’esercizio del potere, ma la stessa forma di governo trova il proprio significato nel legittimarsi quale meccanismo attraverso cui il potere garantisce i diritti.”.
Questa prospettiva, squisitamente liberale, adottata in ogni pagina del saggio denuncia come, oggettivamente, il nostro ordinamento non sia, se ancora necessitavamo di una conferma, liberale e il seguito del testo documenta ampiamente come il modello statuale italiano sia ereditato in toto dal fascismo, con la sua commistione organica tra stato e partiti (sostituendo il plurale del nostro sistema pluripartitico al singolare del partito fascista) e obbedisca fedelmente a questo modello in cui l’interesse dello stato, incarnato dall’apparato amministrativo, è sempre preminente rispetto alla difesa dei diritti del singolo.
In termini di denuncia dello stato patologico in cui si trovano le nostre istituzioni questo testo coglie in pieno il suo obbiettivo.
Rossi, nell’introduzione pone come programma di lungo termine (il “programma per i prossimi 50 anni”) per chi volesse impegnarsi in una battaglia politica liberale la volontà di riequilibrare i rapporti tra questi due soggetti, lo stato e il cittadino, per restituire al suddito italiano la propria piena cittadinanza, restituendogli la parità, di fronte alla legge, nei confronti dello stato e del suo apparato amministrativo.
Chi scrive è un libertario, più propenso nei momenti di stanchezza a indulgere al minarchismo, e in linea teorica troverebbe l’obbiettivo di Rossi come insufficiente e viziato dall’assunto che, attraverso una “ristrutturazione” dello stato e dei suoi organi, si possa recuperare tale equilibrio.
Ma chi scrive è anche una persona pragmatica e consapevole che, a partire dalla situazione italiana attuale, è già velleitario il programma proposto da Rossi, per cui non può che sperare che almeno tale programma possa trovare un suo interprete, capace di portarlo a termine, dando a chi ambirebbe a mutamenti ben più radicali del nostro ordinamento un terreno in cui tali cambiamenti non appaiano più come bizzarri vagheggiamenti utopistici.


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