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The pursuit of happiness

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Molto spesso e molto volentieri, nelle discussioni relative al libertarismo, l’accento cade su temi di natura economica.
Soprattutto chi è più critico nei confronti del libertarismo lo è per la concezione economica che lo contraddistingue.
Nonostante sia chiaro che i temi economici sono estremamente rilevanti per il libertarian, ridurre il pensiero libertarian a un economicismo politico è profondamente sbagliato.
Scopo fondamentale del libertarismo è garantire a ciascun uomo, in quanto individuo, la possibilità di perseguire liberamente i propri personali obbiettivi.
Ciò che Thomas Jefferson sintetizzò mirabilmente nel più famoso passaggio della Dichiarazione d’Indipendenza:
“We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their creator with certain inalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”
Che esprime in pieno il significato profondo del pensiero libertario.
La possibilità, per ciascuno di noi, di perseguire la propria, personale, ricerca della felicità è la forza propulsiva del libertarismo.
Questo accento individualista, peraltro, non è da intendersi come gretto egoismo e attitudine antisociale.
Si osservi come il padre più nobile del pensiero economico liberale oltre che autore del trattato sulla “Ricchezza delle nazioni” è anche autore di un trattato sulla “Teoria dei sentimenti morali” e che solo dalla lettura di entrambe le opere si può cogliere come il self-interest non possa e non debba essere ridotto al puro calcolo monetario.
Dice Smith:”Per quanto egoista si possa ritenere un uomo, ci sono evidenti principi nella sua natura per cui è interessato alle sorti del prossimo suo e che gli rendono indispensabile l’altrui felicità, benché egli non ne guadagni nulla se non il piacere di contemplarla.”
La valutazione dell’utile, per ciascuno, è un processo soggettivo e non è necessariamente limitato a un tornaconto economico di cortissimo respiro potendo, bensì, contemplare la propensione, innata in ciascuno di noi, a cercare l’approvazione altrui o a soddisfare al dettato della propria coscienza e dei propri principi morali.
“La natura, quando ha creato l’uomo perché vivesse in società, lo ha dotato di un innato desiderio di soddisfare e un’avversione a ferire i suoi fratelli. Essa gli ha insegnato a provare piacere per i loro momenti propizi e dolore per quelli infausti”
Un’implicazione di questo ragionamento, colta più tardi da Menger, Jevons e Walras nella storia dell’economia, è quella che porta a comprendere come il valore non sia creato da un processo materiale e come non siano i fattori produttivi a determinare univocamente il valore delle merci.
Il valore, frutto del giudizio soggettivo delle persone, è un prodotto, una creazione della mente umana.
Le persone stanno meglio non perché hanno un numero maggiore di beni, ma perché vedono i loro bisogni soddisfatti.
Ovviamente abbiamo necessità che richiedono beni materiali per la loro soddisfazione ma anche altri bisogni che possono essere soddisfatti solo dall’amicizia, dall’amore o da un’esperienza religiosa. Alla teoria economica importa soltanto il fatto che le persone abbiano bisogni da soddisfare.
Per l’analisi economica non è significativo in cosa consistano questi ultimi.
I beni materiali sono un mezzo potenziale per soddisfarli ma non sono gli unici.
Il libertario pone, perciò, le libertà negative a fondamento delle proprie tesi perché senza di esse non si può intraprendere quella ricerca della felicità che da un senso alla vita.
Negarle o coartarle per garantire la soddisfazione dei bisogni materiali, per quanto possa sembrare equo, significa negare la propria umanità.
La libertà ha, necessariamente un prezzo. Un prezzo immateriale, s’intende, ma pur sempre un prezzo: la responsabilità.
Uno dei padri spirituali del socialismo italiano, spesso citato, disse che non poteva considerare veramente libero “…un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli…”.
Orbene, si immagini un uomo che abbia tutte queste cose e che, per averle, paghi il prezzo di non poter decidere autonomamente per se stesso ciò che è bene e ciò che è male.
Un uomo che non si accolli il peso delle conseguenze delle proprie scelte, e che abdichi ad esse in cambio della sicurezza, è, realmente, un uomo?
Si osservi che, ancora una volta, non è il senso fisico di sazietà ciò che può spingere a rinunciare alla libertà.
E’ la paura di ciò che la libertà comporta a spingere l’uomo a rinunciare ad essa.
Per quanto preziosa, la libertà è faticosa: impone di doversi interrogare su ciò che è preferibile, impone di darsi un metro di giudizio e di confrontarsi con i fatti.
E questo può generare frustrazione, può metterci di fronte all’evidenza che le nostre convinzioni possono essere fallaci.
Se qualcuno volesse eliminare la frustrazione – o l’eventualità della frustrazione – dalla propria esistenza, finirebbe per eliminare anche la libertà o una sua gran parte. E non è escluso che c’è chi davvero lo fa, tanta è la tensione interiore che provoca il dovere scegliere in continuazione tra diverse opzioni, senza che nulla o nessuno gli dica che cosa è giusto fare, senza che nulla o nessuno lo tranquillizzi definitivamente e riporti la pace nel suo animo.
La tensione che la vita libera comporta, con il rischio della responsabilità, allora, appare come insopportabile, poiché la colpa di un eventuale fallimento non può che ricadere sulle spalle dell’individuo.
Ecco che la “libertà d’imprecare” che tanto dispiace al socialista, non dispiace perché limita le scelte dell’individuo, ma perché è il segno che la personale ricerca della felicità di ciascun individuo è difficile e gravosa.
Eric Hoffer, nel 1951, ci ha regalato un’analisi impietosa, in “The True Believer: Thoughts on the Nature of Mass Movements” (brossura e ebook), di come il senso di frustrazione, o la paura di tale eventuale frustrazione possano spingere l’individuo a annullarsi in un movimento di massa, preferendo liberarsi dal fardello della libertà.
Scrive Hoffer: “Aderiamo a un movimento di massa per sfuggire alla responsabilità individuale o, secondo le parole dell’ardente giovane nazista, ‘per essere libero dalla libertà'”.
Chi si sente travolto dalla vertigine della libertà, rinuncia all’opportunità di poter perseguire i propri fini, di poter ricercare da individuo ciò che gli può dare la felicità jeffersoniana e trova la propria pace nella sottomissione.
E’ questo il movente principale di tante conversioni a idee totalitarie e religioni rivelate (Islam, ad esempio, vuol dire esattamente questo, sottomissione).
Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov, narra la parabola del Grande Inquisitore, che a un Cristo reincarnato commina la pena del rogo, come farebbe al peggiore degli eretici. Perché?
Perché Cristo, nella prospettiva di Dostoevskij, ha portato la libertà all’uomo e il Grande Inquisitore “fa un merito a sé ed ai suoi precisamente di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini” perché “nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà!”.


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